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Rovine di Castel Penede
Non sono rimasti che pochi ruderi sbrecciati, alti sul costone roccioso incombente sulla Valle di Santa Lucia. Ma sono la testimonianza di una possente costruzione che rivestì durante tutto il Medioevo una notevole importanza militare come opera di difesa e simbolo di potere e di dominio. Si trattava di una costruzione molto ampia e complessa: lunga 103 metri e larga 43, l'area racchiusa dalle mura era di 3673 metri quadrati. Durante i secoli il castello subì molti ampliamenti e trasformazioni, tra l'altro ad opera dei Veneziani che, durante la loro occupazione, (1440-1509) vi aggiunsero una "bastìa".
La prima notizia ufficiale riguardante Castel Penede è dell'11 settembre 1210, quando il vescovo Federico Vanga stipulò la pace con Odorico e Federico d'Arco, riservandosi però i diritti sul castello "onde poter usare la fortezza in ogni momento".
Verso il 1240 fu preso e incendiato dagli Scaligeri di Verona, raggiunto dai guelfi bresciani, ripreso dal partito vescovile, ricostruito, espugnato dai Castelbarco.
La storia di Castel Penede è tutto un susseguirsi di lotte per il suo possesso, che videro coinvolti i più potenti signori locali dell'epoca.
Ma a parte l'occupazione veneziana e un predominio dei Castelbarco nel XIV secolo, il maniero fu quasi sempre feudo dei conti d'Arco, che avevano signoria anche sui paesi di Nago e di Torbole. Recenti rinvenimenti archeologici hanno messo in luce che lungo tutta la dorsale dello spuntone roccioso sul quale sorge il castello, erano state costruite opere di fortificazione con grosse mura e torri fino a Torbole. Si trattava dunque di un notevole complesso difensivo, che trova una sua ragione nel fatto che era destinato al presidio dell'estremo lembo meridionale del Tirolo, provincia dell'impero asburgico, e dunque di una terra di confine.
La prima e finora unica planimetria del castello che è giunta fino a noi è quella estratta dal Codice Enipontano del 1615.
Il codice è dovuto all'arciduca Massimiliano d'Austria che governò il Tirolo dal 1602 al 1618 e che, minacciato dalle mire espansionistiche di Venezia, fece verificare la consistenza delle fortificazioni meridionali del territorio da lui amministrato.
Dal rilievo seicentesco si osserva che il castello era formato da un nucleo edilizio circondato da una cortina muraria, il cui accesso era regolato da un ponte levatoio, e da una ulteriore cinta muraria più esterna con camminamento, torri e bastioni nei punti di maggiore visibilità.
Nel corso del XVII secolo furono effettuati tre inventari, dai quali possiamo dedurre importanti elementi di conoscenza sulla struttura interna e sulla abitabilità del castello.
Apprendiamo per esempio che c'era la Torre della polvere, la Bastia veneziana, la Bastia del Wagele, la cappella, due fornitissime sale d'armi, il torchio, il panificio, il molino, la caneva della farina, la cantina, la falegnameria, l'officina del fabbro, oltre alle abitazioni e ai locali per i soldati.
Presso la torre della Polvere c'erano la cucina, la stanzetta da basso, il camerino di dentro, il corridoio, dove erano appesi "12 moschetti grandi", la chiesa, la fucina del fabbro, il torchio, le camere delle guardie e così via.
A quel tempo il castello era ormai in decadenza; era tuttavia munitissimo di armi ed in esso si celebravano processi anche con ricorso di tortura. Nel 1701 la vecchia fortezza fu occupata dalle truppe di Eugenio di Savoia guidate dal generale Guttenstein; due anni dopo, il 31 luglio 1703, il colonnello imperiale Fresen vi fu assediato dai franco-spagnoli comandati dal generale Vendòme: il castello fu espugnato, messo a sacco, incendiato e poi demolito con le mine. Il presidio militare imperiale venne trasferito a Torbole.
Il panorama che si gode dall'alto della rupe è straordinario. Una leggenda racconta che al tempo del dominio castrobarcense fu ospite di quella potente famiglia Dante Alighieri, esule dalla sua Firenze. La vista incomparabile del lago gli avrebbe ispirato i celebri versi del Canto XX dell'Inferno:
"Suso in Italia bella giace un laco
a piè dell'Alpe che serra Lamagna
sovra Tiralli, ch'ha nome Benaco.
Per mille fonti credo e più si bagna
tra Garda e Valcamonica, pennino
dell'acqua che nel detto laco stagna".
tratto dal libro "Saluti dal Garda" di Ferdinando Martinelli